Antonio De Ferraris detto Galateo, nato a Galatone (LE) nel 1448, amico dei re aragonesi e medico di Federico d’Aragona, è stato uno dei più originali esponenti dell’Umanesimo Meridionale.
Gli interessi del Galateo, in ambiti accademici e a corte, furono quelli della scienza e della Medicina e pubblica un trattato sulle terapie contro la gotta, il “De morbo articulorum, podagra et morbo gallico” dedicandolo al poeta Gabriele Altilio, vescovo di Policastro.
Il De Podagra Galateano evolve in digressioni di carattere corografico, come la trattazione sui vini di cui si riportano i relativi riferimenti:
……Nessuno al certo paragona il mosto cotto al vino di Crati, né l’acqua ottima alla palustre e sordida; ma v’è differenza tra l’acqua di fonte e l’acqua piovana, ed Aristotile paragonò il vino di Lesbo a quello di Rodi, non già l’acido e il guasto al Falerno.
Tutti i vini sogliono accrescere i morbi del cervello, della midolla spinale (da cui, oltre quelle sette prime paia, tutti i nervi hanno origine), dei nervi e delle giunture, poiché facilmente penetrano in quelle parti e nello stomaco di coloro che soffrono morbi in quella membra.
Si narra che molti si liberano dalla podagra col rinunziare all’uso del vino. Però poiché questa malattia spesso suole accompagnarsi col dolore dei lombi o colla celiaca (la quale alle volte è causa di quello), e non tutti tollerano l’acqua per bevanda, o perché non sono avvezzi, o perché non sono sani di stomaco, o perché sono tristi a cagione dello studio delle lettere, che eccita l’altra bile, o perché addivengono più malinconici per altre cure (tutte le quali cose toglie Bacco, datore di allegrezza); perciò trovò il rimedio il più atto a sollevar le cure, a domar gli affanni e le tristezze colui che mostrò esser quello sacro ai mortali.
Imperocché il vino, come Davide, nostro Pindaro e nostro Alceo, dice, rallegra il cuore dell’uomo; né concilia meno i sonni, provoca l’orina, smaltisce i cibi, toglie le afflizioni, alimenta gli spiriti e nutre abbondantissimamente, e corrobora gli animi e i corpi estenuati dalle cure e travagli, rinnova la mente, e quanto di vita e di forza ritraggono i Barbari dalla loro fierezza, tanto apporta questo succo a noi che abitiamo regioni più miti.
Questo fa i poeti, imperocché senza di lui non possono né sussistere, né lungamente piacere i versi.
Poiché sembrano esser sommamente a proposito le parole di Plinio lib. 22. c. 24 quando parla dell’acqua melata, le riporterò a verbo: «l’asprezza dell’animo, o piuttosto dell’anima, si mitiga col dolce succo, lenisce il passaggio della respirazione, e rende più molli i meati, affinché non la interrompano mentre va e viene.
Ciascuno ha sperimentato in se stesso le mille volte, che l’ira, il dolore, la mestizia ed ogni impeto dell’animo si calma col cibo.
Perciò debbono osservarsi quelle cose che contengono medicina non solo dei corpi, ma ancora dei costumi».
Così Plinio. Perciò un filosofo era solito dire: come il lupino nell’acqua, così il suo animo si ammolliva e si addolciva nel vino.
Di questo come l’uso moderato è utilissimo, così lo smodato è perniciosissimo.
Questa è la legge degli opposti: quanto un contrario è migliore e più utile, tanto l’altro è peggiore e più pernicioso.
Qual cosa più prestante del vino, al quale, come la pensò Asclepiade, può appena eguagliarsi la potenza degli Dei?
Che anzi il vinoso Omero è biasimato per le doti fatte al vino;
Aristotile stimò essere tutti gli uomini forti avidissimi del vino.
Nelle leggi dei Saraceni è vietato l’uso del vino; pure i peritissimi medici Basi ed Avicenna non si vergognarono consigliar l’ebrezza due o almeno una sola volta al mese; il qual precetto tu stima esser perniciosissimo e alla sanità ed ai costumi.
Questi è quel Dionisio non mai lodato abbastanza dai poeti; questi è quel sempre giovane dalla intonsa chioma.
Ma perché non sembri che in questo luogo celebriamo le orgie e i baccanali, basti quel che si è detto per questa parte; dall’altra poi, è cosa veramente degna d’ammirazione, che il vino in breve spazio di tempo rende l’uomo insano e inutile.
A che ammiriamo la torpedine, a che le echeneidi, a che i veleni, i quali col solo tatto, o vista, o suffumigio nuocciono? Abbiamo con noi quel soavissimo e familiarissimo veleno, che se ignorassimo del tutto, forse assai migliore sarebbe la vita.
Né ignoro affatto che un poco di vino vecchio giovi alle malattie dei nervi, secondo Avicenna, né Plinio dissente, imperocché dice nel lib. 23. c. 1:
«dal poco vino i nervi traggono giovamento, ma dal molto sono lesi».
Ma io crederei che ciò sia stato detto in riguardo di medicina, non di bevanda.
Per le quali cagioni dee sembrare che il vino è da concedersi a quelli che sono affetti da podagra, il quale se non giovi, poco nuoce.
Imperocché i piccoli danni son da tollerarsi con egual animo, quando ne siegue maggiore utilità; imperocché un male minore ha una certa ragione di bene.
I vini rossi sono spumanti e, come dicono i medici, vinosi, che Galeno credè caldissimi; i biondi sono troppo acquosi e sottili, che lo stesso Galeno giudicò e stimò freddi.
Il nostro secolo non conobbe né i Falerni, né i Sezzani, né quelli di Scio, né quelli di Rodi, quali erano allora.
Però quello di Candia si tiene in sommo onore, che non è rosso ma biondo e, a mio giudizio, il più caldo di tutti; gli acidi, muffiti e troppo forti debbono tutti schivarsi, e parimenti i dolci che appena di digesticono, e sono attissimi onde facilmente si mutino in acuto, cioè in atrocissimo nemico di questo morbo; imperocché, come si è detto, l’asprezza dell’animo si mitiga col vino dolce.
Usa qualche volta di quello che appellano malvagia, ma piuttosto per medicina che per bevanda, imperocché, a mio giudizio, quel vino è soavissimo, ed intanto è dolce, rosso, non spumante, che appellerei sciroppo piuttosto che vino.
Ma tanto in ciò, quanto nel resto, tieni questo comune precetto: consulta sempre il tuo stomaco, ottimo medico e maestro della vita.
Imperocché son tanto varie le affezioni del corpo, quanto quelle degli animi, le quali appena possono essere conosciute dai medici.
Tra Il nutrimento e ciò che si nutrisce non vi è solamente proprietà specifica, ma anche individuale.
Tu se vuoi, chiamala simpatia e antipatia, che si conosce colla sola esperienza; nella qual cosa, secondo la testimonianza di Avicenna, l’esperimento vince la stessa ragione.
Se devi usare il vino, bevilo adacquato, bevilo leggiero e claretto, e bevilo qual’è o di Passignano, o di Antignano, il quale sa delle muse del Pontano, o di Fontavino, da quel monte di selce, o di Firenze, o quello che ti produce la vicina Carbonara.
Non bere il vino greco, né nuovo né vecchio.
Non bere il vino c Policastro; imperocché ha un non so che di orribile, e deve appre starsi piuttosto ai marinari e agli zappatori, che alle persone civili Loderei tutti quelli che la felice regione della Campania piantata di viti e gli amenissimi colli producono, eccettuato il greco, e se v’è altro somigliante.
Enrico Poderico cavaliere napoletano, il cui consiglio mi giovò più che quello di tutti i medici, soleva narrare di aver udito de più vecchi dei napoletani, che alcuni erano stati talmente affetti da questo morbo, che non si incontravano pei templi e per crocicchi, se non portando canne o bastoni.
A questo fatto nessun’altra cagione assegnavano i medici oltre dell’uso del vino greco.
Imperocché a quel tempo era costume dei napoletani al principio del pranzo o della cena bere un calice di puro vino greco, il quale era tanto più penetrante e nocivo, quanto più si prendeva a stomaco digiuno.
Tolta quell’usanza, non è più così frequente e peculiare quel morbo.
Lo stesso Enrico cominciò a soffrir di podagra in sù i vent’anni; la onde visse astemio fino alla vecchiezza, ed illeso compì quasi il settantesimo anno.
Personaggio di grande statura ilare di volto, incedeva diritto, il che è difficilissimo e in quell’età e in un corpo grande; imperocché dice Ippocrate: è bello al certo il un giovane un corpo grande; è inutile poi in un vecchio.
Mi ricordo di avere spesso udito da lui, che quando si fosse fatto lecito, no dico di bere del vino, ma di libare, subito sentisse certi dolori quasi sopiti nelle giunture.
E cosa veramente ammirabile! Il vino è cosi’ nocivo alle vene, che può ridestare i dolori già spenti in una età, i cui i morbi veramente non si sanano o si espellono, ma come gli altri difetti dell’animo marciscono e muoiono insieme all’uomo.
Tutti i vini generosi e odorosi debbono schivarsi come più caldi, e pieni più di vapori, e contrari al cervello.
Quello di Creta di Corsica, di Taranto, che con antico nome, come credo, appellano Guscopio, e gli altri di simil natura non bere affatto, se noi ti piacerà di vomitar subito i cibi, il che è efficacissimo rimedio come diremo, alla podagra.
Gli antichi non avevano vino nero, se non potentissimo; noi ne abbiamo, che sono leggieri e per nulla spumanti, i quali non so se rettamente li dica più convenienti ai podagrosi degli altri vini.
Certo come è paruto ad Aristotile, dee stabilirsi esser primo ufficio del medico studiare i tempi e le regioni.
Presso gli antichi non eran dolci se non i vini neri;
non i vini limpidi e di biondo colore abbiamo dolci.
Adunque deve leggersi quel che ci tramandarono e gli antichi e i più recenti; però ogni cosa dee lasciarsi all’arbitrio di un buono ed esperto medico, come dice Aristotile; imperocché sembra che i medici non si facciano sui libri, quantunque si sforzino di indicare solamente le cure, ma indicare anche il modo col quale dee somministrarsi la medela, e come convenga curare l’ammalato, e distinguere le abitudini di lui, pur queste cose sembrano utili agli esperti.
Tante cose si sono pur dette intorno alle differenze del vino, anche perché tu conosca quello che ti è utilissimo; imperocché nessuna altra maggior cura deve avere il medico che voglia curare il dolore dei nervi e delle giunture, quanto quella di scegliere il vino; imperocché il vino è nostro compagno sempre e nel pranzo e nella cena; dei rimedii poi e delle medicine raro è l’uso, altrimenti il corpo si consumerebbe.
Inoltre stimò Galeno che nessuna altra cosa di quelle che sono di alimento all’uomo abbia tante differenze, quanto il vino; imperocché, com’egli dice, non troverai mai la lenticchia riscaldante, né il cavolo raffreddante.
Tra i vini è così grande la differenza, che questi con molta forza sono atti a riscaldare, quelli poi sogliono raffreddare abbastanza.
*Tratto da:
Della gotta (De podagra)di Antonio De Ferraris il Galateo, a cura di Vittorio Zacchino, Collana del Centro studi Galatone ediz. Grifo 2016
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