E’ vero, la parola “storytelling” ha in sé il termine “story” ma, come già accennato in altri post, in italiano questa “story” non è l’insieme di fatti cronologici accaduti (che viceversa è indicato dal termine “history”), bensì il “racconto” cioè il modo in cui un individuo, una comunità, un’azienda sceglie di significarsi. Ovviamente un racconto può contenere dei fatti ma se parliamo di storytelling saranno innanzitutto le percezioni, gli elementi simbolici ed emozionali a rivestire un ruolo centrale, mai la semplice descrizione logica dei primi. E questa è stata la mia esperienza di visita in cantina presso due aziende vinicole delle Langhe. Oggi voglio condividere alcune riflessioni sulla prima, l’azienda ‘Piero Busso’, di Neive.
A ricevermi e ad accogliermi è la moglie di Piero, Lucia Busso, che poco dopo avermi aperto il cancello, mi viene incontro con un gran bel sorriso. Cosa me lo fa definire tale? Non certo l’analisi delle microspressioni facciali ma quel mio cervello emotivo che, condiviso da tutti, in una frazione di secondo (ed oggi le neuroscienze ci spiegano come) individua quali e quanti muscoli facciali sono coinvolti in quell’emozione nonché il livello di coerenza temporale della loro attivazione.
Sarà un caso che se digitate su google ‘Piero Busso’, prima ancora del nome dell’azienda c’è scritto “Siete i benvenuti”?
Non ricordo di cosa iniziamo a parlare. Non ricordo i “fatti”, perché la preoccupazione della Sig.ra Lucia non era quella di raccontarmi come è nata l’azienda, il numero di ettari posseduti o la naturalità del lavoro svolto in vigna ed in cantina. Non mi ha “informato” ma “raccontato” l’azienda facendomela vivere attraverso la sua narrazione, quindi, anche attraverso il suo linguaggio del corpo capace di favorire la relazione con l’altro. Perché, come sottolineo sempre anche nei corsi di Public Speaking, è proprio attraverso di esso che, consapevoli o no, veicoliamo emozioni e messaggi di relazione. E qualsiasi forma di storytelling prevede sempre, per definizione, la relazione ed il coinvolgimento dell’altro, dello story listener.
E’ vero, abbiamo anche parlato degli esordi, di come i figli, Pierguido ed Emanuela, siano entrati nella gestione dell’attività solo in un secondo momento, “per loro scelta”, come giustamente la Sig.ra Lucia ci tiene a sottolineare (considerato quanto spesso falliscono alcuni family business, indipendentemente dal mercato di riferimento e dal loro successo iniziale, proprio per il mancato coinvolgimento spontaneo da parte delle nuove generazioni). Ed abbiamo parlato anche del Nebbiolo in generale e dei loro vini in particolare – Mondino, Gallina, San Stunet – così come di questioni più spinose come quella relativa al numero sempre più crescente delle menzioni, dell’importanza dei rating sulle guide…
Le informazioni che ho raccolto non sono state “passate” da un soggetto all’altro ma in un certo senso anche co-costruite. Ed è così che ad un
certo punto le rivolgo la mia domanda da un milione di dollari – cruccio professionale e personale da semplice appassionata di vino – vale a dire quanto conta, secondo lei, saper comunicare il proprio vino, sia online che offline. Risposta pronta: “Molto! Ormai non puoi farne a meno. Già da anni io e mio marito ci siamo resi conto che, volenti o nolenti, per vendere un vino non basta produrre un prodotto di ottima qualità ma occorre saperlo presentare, comunicare”. Ed oggi è Pierguido ad occuparsene in prima persona.
Potrei aggiungere molto altro su questo incontro ma preferisco chiudere con una breve riflessione su quest’ultimo tema.
Tutte le volte in cui mi reco in visita presso un’azienda vinicola mi auguro sempre di incontrare vignaioli come Lucia e Piero Busso che, desiderosi di rimanere fedeli all’artigianalità, alla passione ed all’autenticità del loro lavoro, non considerino la necessità contemporanea di sapersi raccontare, di entrare in relazione con l'”altro”, come ad un tradimento della proprio “naturalità”. Tutt’altro. Anzi, oserei dire proprio l’opposto.
Fonte: http://giorgiapizzutiblog.wordpress.com
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