Tempo fa sul “Corriere della Sera” è apparsa un’intervista a Mario Piccini la cui azienda vinicola, fondata nel 1882, oggi produce circa 15 milioni di bottiglie con quattro tenute in Toscana, una in Basilicata ed una in Sicilia.
Come immaginerete non voglio parlare della qualità del loro vino, aspetto che al di là della mia passione per questo nettare prelibato, lascio ad altri più esperti di me.
Piuttosto vorrei condividere quanto da lui detto come spunto per una breve riflessione sullo storytelling.
Eccovi un estratto:
“Siamo cresciuti in una famiglia dove Chianti era quasi una persona…un ospite al tavolo per tutte le nostre cene. E’ stato come un vecchio loquace, pieno di tradizioni e ricordi di molto tempo fa. Conosceva il nostro bisnonno ed è stato un caro amico di nostro nonno (…). Ero giovane, energico, ribelle e non credevo in quel vecchio dolcemente detto “Chianti”: volevo un Chianti della mia generazione….”
Oltre al fatto che, come già condiviso in altri post, una storia per essere efficace deve essere innanzitutto autentica ed in grado di creare un legame con chi la legge o l’ascolta, non è solo il “cosa” viene raccontato ma soprattutto il “come” a fare la differenza.
E tra i vari “come” vi sono certamente sia la componente non verbale della narrazione, spesso da molti trascurata, sia il “come” organizziamo e “illustriamo” certi “fatti”, quindi anche come li personifichiamo.
Perché senza personaggi una storia non esiste.
E allora credo che molti di noi, leggendo queste poche righe di intervista, si siano anche solo immaginati un “vecchio, loquace…dolcemente detto Chianti” seduto al tavolo di famiglia, e ciò indipendentemente dall’apprezzarne o meno le scelte linguistiche adottate per la sua descrizione.
Questo accade perché in qualità di esseri umani abbiamo l’innato bisogno di entrare in relazione con l’ “altro”, sia esso un oggetto che una persona in carne ed ossa.
Oltre all’investimento affettivo legato, ad esempio, all’esperienza di acquisto e/o di consumo, pensiamo anche a quanto i prodotti ci rappresentino.
Non a caso oggi si parla tanto di narrazione di sé attraverso il consumo…
Per alcuni poi l’auto, per altri la casa, per altri ancora un orologio, o magari un libro, tutte queste “cose” vengono in qualche modo personificate oltre che personalizzate, processi a mio parere strettamente intercorrelati tra loro oltre che con la “storia” che rappresentano.
In un esperimento definito dagli stessi autori Rob Walker e Joshua Glenn (due scrittori americani) “letterario ed antropologico”, nel 2009 circa 200 autori sono stati invitati a creare dei brevi racconti su degli oggetti venduti su ebay Il prezzo medio di vendita degli oggetti era inizialmente di circa $1.25 ed è così passato a ben $8,000.00.
È vero, sono state appositamente inventate innanzitutto delle “storie”, non necessariamente delle personificazioni.
È vero anche, almeno a mio parere, che in questo caso l’effetto della storia sul valore raggiunto dall’oggetto è legata anche al fatto che quella storia ha consentito una qualche “personificazione” dell’oggetto stesso.
A questo proposito credo possa risultare interessante dare uno sguardo anche ad un altro progetto, quello di #vinoumano in cui si chiede ad alcuni produttori di raccontare il loro vino come se fosse una persona descrivendone età, sesso, caratteristiche di personalità etc.
Ricordiamoci però che al di là del “come” e del “cosa”, al centro di uno storytelling efficace vi è sempre e comunque una ragion d’essere strettamente legata al “cuore” dell’azienda/prodotto che vogliamo raccontare.
E che sia una morale, un messaggio, un insegnamento, non importa.
L’importante è che ci sia.
Fonte: https://giorgiapizzutiblog.wordpress.com/2017/07/25/perche-personificare-una-storia-aziendale/
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